Assistenza malati terminali: meglio a casa o in hospice?
Per un malato terminale, è meglio l’assistenza a domicilio o il ricovero? Gli hospice offrono in entrambe i casi gli stessi standard di cure? Nella scelta è bene coinvolgere medici e paziente? Un breve approfondimento per dare supporto a chi si trova di fronte alla difficile scelta tra cure a casa o in struttura.
Quando si ha in famiglia un malato terminale, la scelta tra l’assistenza domiciliare o il ricovero in hospice è una delle più complesse da affrontare. L’obiettivo, infatti, è garantire le cure migliori ad una persona che attraversa una fase molto difficile della vita e, allo stesso tempo, non allontanarlo troppo dai propri affetti e dalle proprie abitudini. Quando si deve decidere tra cure a casa e ricovero, quindi, si è spesso assaliti da dubbi assolutamente leciti, che hanno soprattutto a che fare con i bisogni e le sofferenze di un malato terminale. Una scelta difficile, che però può essere più facilmente affrontata se si dispone delle giuste informazioni.
Assistenza domiciliare o ricovero: i servizi offerti dagli hospice
La prima cosa da sapere è che il termine hospice identifica tutte quelle strutture che erogano esclusivamente e specificatamente cure destinate a pazienti con prognosi infausta che si trovino nella fase finale della propria vita. Sono quindi dei veri punti di riferimento per tutti coloro che ricoprono il ruolo di caregiver di malati terminali. I servizi che offrono gli hospice sono di due tipi:
- Ricovero in sede;
- Assistenza domiciliare.
In entrambe i casi, se si sceglie una struttura di qualità, si ha la certezza di affidare il proprio familiare a una squadra di medici e professionisti sanitari capaci di farsi carico di tutte le sue necessità e fornirgli le cure migliori (comprese quelle palliative e di terapia del dolore). E questa certezza rappresenta già un grande sollievo. Quindi, fare visita ad un hospice, capire come si lavora al suo interno, informarsi sulle cure garantite, sono passi fondamentali per supportare la propria scelta.
Cure a casa o in hospice: il parere del paziente e dei medici
L’altra cosa che bisogna fare per decidere se è meglio il ricovero o la cura a casa, è ascoltare il parere dei medici e, se la malattia lo consente, del paziente direttamente interessato. Il medico di riferimento, infatti, è l’unico a poter valutare pienamente se il malato terminale può ricevere un adeguato livello di cure rimanendo a casa o deve essere tenuto in struttura. Allo stesso modo, è bene ascoltare le preferenze di chi sta male. Alcuni, infatti, preferisco vivere le ultime fasi della loro vita ella casa in cui hanno sempre abitato, circondati dagli affetti più cari. Altri, invece, si sentono più sicuri e confortati in una struttura sanitaria.
Come funziona l’assistenza domiciliare?
Accanimento terapeutico, quando le cure diventano una sofferenza
L’accanimento terapeutico è un tema delicato, strettamente intrecciato a quello delle cure palliative, della terapia del dolore e dell’eutanasia. In questo approfondimento, si analizza la definizione di accanimento terapeutico e la normativa che lo disciplina in Italia, a partire dalla Costituzione dalla legge 219/2017.
Quando si parla di malattie a prognosi infausta, di cure palliative e di terapia del dolore, c’è un tema molto delicato che viene in rilievo e che merita di essere affrontato: l’accanimento terapeutico. Nel linguaggio comune e nel dibattito mediatico, questo argomento è legato a doppio filo con quello dell’eutanasia e del testamento biologico. Spesso, però, si tende a fare confusione, senza saper bene dove collocare la distinzione tra rifiuto delle cure e suicidio assistito. Consapevole di questa difficoltà e sollecitata dall’opinione pubblica, la normativa italiana ha provato a disciplinare l’argomento con la legge 219 del 2017. In ambito medico, però, non sempre è facile tracciare un contorno netto.
Cos’è l’accanimento terapeutico: definizione ed esempi
La domanda principale, quindi, resta una: cosa si intende con accanimento terapeutico? La definizione di riferimento va sicuramente cercata nella già citata legge 219, che, pur senza citare mai espressamente il termine accanimento terapeutico, elabora il seguente sintetico significato:
“trattamenti inutili o sproporzionati”.
Questa definizione, però, acquista ancora più senza grazie al riferimento che la norma fa ai malati con “prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte” che vadano incontro a “sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari”. Semplificando, quindi, è possibile affermare che nel concetto di accanimento terapeutico rientrano tutti quei trattamenti che non sono in grado né di dare beneficio alla salute, né di migliorare la vita del paziente. La valutazione, alla luce del quadro clinico, spetta ovviamente all’equipe medica che ha in carico il paziente.
D’altra parte, il riferimento al miglioramento della qualità della vita dell’assistito come discrimine per stabilir quali terapie applicar e quali no è contemplato anche dal codice deontologico dei medici, all’articolo 16:
“Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”.
È evidente, quindi, che le cure palliative non rientrano nell’ipotesi di accanimento terapeutico ma, anzi, in molto casi, sono l’unico modo per alleviare le sofferenze di un paziente quando si decide di interrompere gli altri trattamenti perché inutili.
Esempi di accanimento terapeutico, invece, a seconda del contesto medico, possono essere alcuni trattamenti oncologico, come la chemioterapia, se protratti in modo indiscriminato e ostinato, anche contro le evidenze.
Accanimento terapeutico ed eutanasia
Questi riferimenti normativi, inoltre, rendono abbastanza chiara anche la differenza che c’è tra accanimento terapeutico e eutanasia. In quest’ultima ipotesi, conosciuta anche come suicidio assistito e non permessa in Italia, non solo si interrompono le cure non più efficaci ma si accelera il naturale decesso del paziente mediante la volontaria e consapevole somministrazione di appositi farmaci. Ovviamente, nei paesi in cui questa pratica è legale, può essere attuata solo su esplicita richiesta del malato, espressa al momento o attraverso apposite disposizioni di ultima volontà.
Chi può accedere ad un Hospice?
L’accanimento terapeutico nella normativa italiana: Costituzione e legge 219
Al di là della definizione, è inutile approfondire un po’ di più cosa dice la normativa italiana in materia di accanimento terapeutico. La legge di riferimento, come anticipato è la 219 del 2017. A monte, però, è bene richiamare anche l’articolo 32 della Costituzione, che vita l’imposizione di qualsiasi trattamento sanitario, salvo casi eccezionali, disciplinati per legge e comunque rispettosi della persona umana.
Agganciandosi a questo importante principio, nel 2017 si è cercato di disciplinare meglio tutto ciò che riguarda il consenso del malato alle cure. La legge di 219/2017 si basa su alcuni concetti fondamentali che ne costituiscono i pilastri:
- Divieto di ostinazioni irragionevoli nelle cure, in carico al medico curante e alla sua equipe;
- Consenso informato, che il paziente in grado di intendere e volere deve poter esprimere rispetto alle cure che gli vengono somministrate;
- Pianificazione condivisa delle cure, che viene redatta con il coinvolgimento del paziente e dei suoi parenti, nei casi di patologie che provocano invalidità, progressivo deterioramento e prognosi infausta;
- Disposizioni anticipate di trattamento (o testamento biologico), che permette al paziente di prendere decisioni relative ai trattamenti terapeutici che intende ricevere nella fase terminale della propria vita, qualora non fosse in grado di comunicarli direttamente al momento al personale sanitario per mancanza di coscienza.
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Livelli essenziali di assistenza (LEA), uno strumento fondamentale per garantire il diritto alla salute
I livelli essenziali di assistenza fissano le prestazioni e i servizi che il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) deve obbligatoriamente erogare a tutti i cittadini in tutta Italia gratuitamente (o con pagamento del solo ticket). Dal 2017 ne fanno parte anche le cure palliative e la terapia del dolore.
Cosa sono i LEA e come funzionano
Una definizione puntuale di cosa sono i livelli essenziali di assistenza si può rintracciare sul sito ufficiale del Ministero della Salute. Secondo il portale
“i LEA sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse)”.
Appare chiaro, quindi, che tali livelli di assistenza sanitaria si caratterizzano per tre principi:
- il loro essere riconosciuti in modo egualitario a tutti i cittadini;
- il loro essere garantiti in modo identico su tutto il territorio nazionale (le Regioni, per la parte di loro competenza in materia sanitaria, devono adeguarvisi);
- il loro essere gratuiti (o sottoposti al solo pagamento di un ticket).
L’esistenza dei LEA nell’ordinamento italiano è direttamente collegata con l’affermazione in Costituzione del diritto alla salute (art. 32), che la Carta definisce come diritto fondamentale sia del singolo che della collettività.
Quando sono stati introdotti i Livelli Essenziali di Assistenza del SSN e quando vengono aggiornati?
Nonostante il loro ruolo centrale nella garanzia del diritto alla salute dei cittadini, i LEA sono stati definiti per la prima volta solo nel 2001, con il DPCM del 29 novembre 2001 e poi aggiornati con il DPCM del 12 gennaio 2017. Inoltre, a decorrere dalla legge di bilancio del 2022, è previsto uno stanziamento annuo di 200 milioni di euro per l’aggiornamento dei LEA, che è affidato a un’apposita commissione a cui possono pervenire richieste da parte di cittadini, medici e istituzioni di ambito sanitario.
Quanti e quali sono i LEA
Il sistema dei livelli di assistenza è articolato in tre macroaree, a cui corrispondono specifici LEA, come dettagliato di seguito.
Prima macroarea: prevenzione collettiva e sanità pubblica. Ne fanno parte:
- sorveglianza, prevenzione e controllo delle malattie infettive e parassitarie (inclusi i programmi vaccinali);
- tutela della salute e della sicurezza degli ambienti aperti e confinati;
- sorveglianza, prevenzione e tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
- salute animale e igiene urbana veterinaria;
- sicurezza alimentare;
- sorveglianza e prevenzione delle malattie croniche;
- sorveglianza e prevenzione nutrizionale;
- attività medico legali.
Seconda macroarea: assistenza distrettuale. Ne fanno parte:
- assistenza sanitaria di base;
- emergenza sanitaria territoriale;
- assistenza farmaceutica;
- assistenza integrativa;
- assistenza specialistica ambulatoriale;
- assistenza protesica;
- assistenza termale;
- assistenza sociosanitaria domiciliare e territoriale;
- assistenza sociosanitaria residenziale e semiresidenziale.
Terza macroarea: assistenza ospedaliera. Ne fanno parte:
- pronto soccorso;
- ricovero ordinario per acuti;
- day surgery;
- day hospital;
- riabilitazione e lungodegenza post acuzie;
- attività trasfusionali;
- attività di trapianto di cellule, organi e tessuti;
- centri antiveleni (CAV).
Chi può accedere ad un Hospice?
Cure palliative e terapia del dolore nei livelli essenziali di assistenza
Una delle più importanti novità introdotte dal DPCM del 2017 in materia di livelli essenziali di assistenza è stata l’inserimento nei LEA delle cure palliative e della terapia del dolore destinata a malati terminali con prognosi infausta. In questo modo, sono entrate a far parte dei LEA importanti prestazioni sanitarie utili ad alleviare le sofferenze di chi sta vivendo la fase finale della propria malattia, come:
- percorsi assistenziali integrati;
- cure palliative domiciliari;
- centri specialistici di cure palliative e hospice;
- ricovero ordinario per acuti;
- assistenza specialistica ambulatoriale.
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Assistenza domiciliare integrata (ADI), una breve guida
L’assistenza domiciliare integrata è un servizio gratuito erogato dal Sistema Sanitario Nazionale agli anziani o malati non autosufficienti. L’ADI comprende tutte le attività sociosanitarie necessarie per soddisfare il Piano Terapeutico Individuale. Ecco come funziona e chi può beneficiarne.
La gestione di una persona cara che si trovi in condizioni di non autosufficienza è piuttosto faticosa, come sa chi ricopre il ruolo di caregiver familiare per un proprio parente prossimo. L’anziano o il malato che non riesce a badare da solo a sé stesso ha bisogno di cure costanti di diverso tipo: dal semplice supporto nelle attività quotidiane ad interventi di tipo medico o sociosanitario (visite specialistiche, esami diagnostici, somministrazione di farmaci, terapie riabilitative, ecc.). In alcuni casi, tali cure possono essere garantite solo all’interno di una struttura ospedaliera o assistenziale (ospedale, casa di cura, hospice o RSA). In molti casi, invece, l’assistenza può essere prestata efficacemente anche a casa del paziente, senza costringerlo al ricovero. Quella dell’ADI è una scelta che ha anche un importante risvolto umano, perché permette alla persona fragile di rimanere a contatto con la propria famiglia e con il proprio contesto sociale. L’assistenza domiciliare integrata (ADI) è uno degli strumenti offerti dal Sistema Sanitario Nazionale per soddisfare questa esigenza.
Cos’è e come funziona l’assistenza domiciliare integrata
La definizione di assistenza domiciliare integrata, quindi, è molto semplice:
l’insieme delle prestazioni mediche, infermieristiche, assistenziali e riabilitative erogate direttamente a casa del paziente da professionisti del settore sociosanitario (come medici, infermieri, fisioterapisti, OSS, farmacisti, psicologi).
Si possono individuare due tipologie di ADI:
- A bassa intensità sanitaria (livello 1 – massimo 5 giorni su 7, anche per più di un anno): destinata ai pazienti che non possono accedere allo studio del proprio medico curante, a causa di non autosufficienza o presenza di barriere architettoniche, e che sono affetti da malattie croniche, sia invalidanti che non invalidanti;
- A media intensità sanitaria (livello 2 – massimo 6 giorni su 7, fino ad un anno): destinata ai pazienti che non possono accedere allo studio del proprio medico curante e che sono affetti da malattie croniche invalidanti riacutizzate o complicate o da malattie post-acute invalidanti;
- Ad alta intensità sanitaria (livello 3 – 7 giorni su 7, fino a sei mesi prorogabili): destinata ai pazienti che non possono accedere allo studio del proprio medico curante per non autosufficienza; che sono affetti da malattie terminali, malattie neurologiche degenerative o progressive in fase avanzata; che necessitano di nutrizione artificiale e di ventilazione invasiva; che si trovano in stato vegetativo.
l’assistenza domiciliare integrata è erogata dal Servizio Sanitario Nazionale, su richiesta del medico di base o di altro specialista e sulla base di un Piano di assistenza individuale, senza nessun costo per il paziente o i suoi familiari. Con il decreto legislativo del 29 novembre 2001, l’Assistenza domiciliare integrata è stata inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
Chi può accedere ad un Hospice?
L’assistenza domiciliare dei pazienti con prognosi infausta
Alla luce della definizione data, è bene precisare che l’assistenza domiciliare integrata va tenuta distinta dall’assistenza domiciliare fornita da strutture come l’Hospice San Luca. Quest’ultima tipologia, infatti, è destinata esclusivamente ai pazienti con prognosi infausta, la cui speranza di vita non supera i 6 mesi. Anche l’assistenza domiciliare erogata dagli hospice rappresenta un’alternativa al ricovero ed è attiva 24 ore su 24, garantendo gli interventi di un team di personale qualificato composto da medici, infermieri, operatori sociosanitari, assistenti sociale, psicologi, fisioterapisti, OSS e volontari (ARVAS).
L’assistenza domiciliare dell’Hospice San Luca di Roma
Chi può richiedere l’assistenza domiciliare integrata e per quali patologie
Come in parte già emerso da quanto detto finora, l’assistenza domiciliare integrata è riservata solo ad alcune tipologie di pazienti. In particolare, la possono richiedere colore che si trovano in una delle seguenti condizioni:
- Sono impossibilitati a raggiungere lo studio del proprio medico per non autosufficienza o per la presenza di barriere architettoniche;
- Sono affetti da malattie invalidanti, non invalidanti o in fase terminale che necessitano di interventi medici o sociosanitari erogabili a casa.
A titolo esemplificativo, sono patologie che possono giustificare una richiesta di ADI:
- Tumori;
- Morbo di Alzheimer
- Morbo di Parkinson
- Gravi fratture (negli anziani)
- Forme psicotiche acute gravi
- Vasculopatie;
- Lesioni neurologiche.
Come richiedere l’ADI
Se il paziente possiede i requisiti richiesti, è possibile avviare l’iter per richiedere l’assistenza domiciliare integrata. Tale procedura differisce in parte a seconda della regione e della ASL di competenza. Ci sono, però, alcuni elementi comuni:
- La richiesta può essere avanzata dal medico di base, da un medico specialista che opera all’interno di una struttura ospedaliera, dall’assistente sociale o dal distretto sanitario comunale di competenza;
- La richiesta viene verificata e vagliata dall’Unità Valutativa Multidimensionale (UVM);
- L’UVM redige il Piano d’Assistenza Individualizzato (PAI), con la terapia necessaria al paziente;
- Sulla base del PAI viene attivata l’assistenza domiciliare integrata.
Lo stress del caregiver, la patologia di chi si occupa di anziani e malati non autosufficienti
Testamento biologico, una breve guida per conoscere meglio le DAT
Il testamento biologico, introdotto nella normativa italiana nel 2018, consente ad ognuno di disporre anticipatamente il consenso o meno a trattamenti terapeutici da attuare qualora di trovasse in fin di vita o comunque incapace di intendere e di volere. Di seguito, una breve guida al biotestamento: chi può farlo, come farlo e modificarlo, a chi consegnarlo, quanto costa.
Con la legge 219 del 2017 (detta anche legge sul fine vita), entrata in vigore il 31 gennaio del 2018, è stata introdotta in Italia la possibilità di fare il testamento biologico, che nel linguaggio ufficiale prende il nome di Disposizioni anticipate di trattamento (abbreviate in DAT). La normativa sul biotestamento è stata approvata dal parlamento italiano al termine di un lungo iter, che ha visto attivarsi una forte mobilitazione popolare. La stessa legge ha stabilito anche importanti principi in materia di libertà di rifiuto delle cure. Nel breve articolo che segue, è sintetizzata una breve guida al testamento biologico, per conoscere meglio cos’è, chi può farlo, quali sono le modalità e quali gli effetti.
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Cos’è il testamento biologico (o Disposizioni Anticipate di Trattamento)
Cosa sia il testamento biologico è facilmente desumibile già dal nome, composto dalla parola testamento, affiancata dall’aggettivo biologico. Nel linguaggio del diritto, il testamento è quell’atto formale con cui una persona può decidere sulla destinazione dei propri beni e del proprio patrimonio dopo la morte. In maniera molto simile, il testamento biologico permette ad ognuno di prendere decisioni relative ai trattamenti terapeutici che intende ricevere nella fase terminale della propria vita, qualora non fosse in grado di comunicarli direttamente al momento al personale sanitario, per mancanza di coscienza.
In particolare, chi redige il biotestamento può pronunciarsi su:
- accertamenti diagnostici;
- scelte terapeutiche;
- trattamenti sanitari (compresi alimentazione e idratazione forzate).
La differenza tra biotestamento e DAT
Ecco perché il nome ufficiale di testamento biologico è Disposizioni anticipate di trattamento. Questo documento, infatti, consente di anticipare disposizioni che altrimenti si rischia di non poter dare. Tra biotestamento e DAT, quindi, non c’è alcune differenza, trattandosi solo di sinonimi.
Cos’è e come funziona un hospice
Come fare il testamento biologico
Vista l’importanza delle decisioni che possono essere assunte tramite il testamento biologico, la legge è molto precisa nel definirne le modalità: chi può farlo, come scriverlo, a chi consegnarlo, quali spese vanno sostenute.
Chi può farlo
Il testamento biologico può essere fatto da chiunque, purché sussistano due condizioni essenziale:
- la maggiore età;
- la capacità di intendere e di volere.
Come scriverlo
Dal punto di vista della modalità di redazione del testamento biologico, a chi desidera lasciare le proprie disposizioni anticipate di trattamento la legge riconosce diverse possibilità. Il biotestamento, infatti, può essere scritto in una delle seguenti forme:
- atto pubblico redatto da un notaio;
- scrittura privata autenticata da un notaio;
- scrittura privata consegnata e firmata personalmente presso l’Ufficio dello Stato Civile del proprio comune di residenza.
Online, sono disponibili numerosi moduli che possono essere utilizzati per la scrittura privata del testamento biologico, come quelli predisposti dalla Fondazione Umberto Veronesi.
Inoltre, è bene precisare che, se colui che fa testamento non è in grado di scrivere, l’atto può essere realizzato mediante videoregistrazione o altro supporto multimediale che permetta la comunicazione. Allo stesso tempo, se la persona non è in condizioni di firmare, la legge prevede l’opzione di stipula dell’atto di fronte a due testimoni.
A chi consegnarlo
Come anticipato, il testamento biologico può essere consegnato:
- all’Ufficiale di Stato Civile del proprio comune di residenza;
- a un notaio.
Quanto costa
Se redatto con scrittura privata e consegnato presso il proprio comune di residenza, il biotestamento non ha alcun costo, essendo esente da tasse e marche da bollo. Se invece si decidi di affidarsi a un notaio, bisognerà sostenere il costo della parcella del professionista incaricato.
Come modificarlo
Ovviamente, vista l’importanza delle disposizioni che contengono, le DAT possono essere modificate in qualsiasi momento da colui che le ha stabilite, purché sussista la capacità di intendere e di volere e si utilizzi la stessa forma scelta per la prima stesura.
Il ruolo del fiduciario nelle disposizioni anticipate di trattamento
Un discorso a parte lo merita la figura del fiduciario, che la legge prevede come facoltativa. Secondo la normativa sul biotestamento, infatti, chi decide di redigere questo documento può indicare un nome a cui attribuire il ruolo del fiduciario. La persona indica deve accettare l’incarico, controfirmando il testamento biologico. Ma quali sono i compiti del fiduciario? Pochi, delimitati ma molto importanti: spetta a lui, nel momento il cui l’autore delle DAT si trova in fin di vita, monitorare l’adempimento delle Diposizioni anticipate di trattamento, interfacciandosi con i medici. Addirittura, la legge gli riconosce il diritto di discostarsi da quanto stabilito nel testamento biologico in tre casi specifici:
- quando le DAT risultano palesemente incongruenti;
- quando le DAT non corrispondono all’effettiva condizione clinica del paziente;
- quando, ne, tempo intercorso fra la scrittura delle DAT e le loro applicazioni, sono emerse nuove terapie non prevedibili e capaci di modificare radicalmente il quadro clinico.
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Hospice, RSA e Casa di Riposo: che differenza c’è?
Capire bene la differenza tra Hospice, RSA e Casa di Riposo è fondamentale per comprendere quali esigenze queste strutture riescono a soddisfare. Lungi dall’essere perfettamente sovrapponibili, infatti, questi luoghi di assistenza e cura si rivolgono a persone completamente diverse.
Nel linguaggio comune, si tende spesso ad utilizzare come sinonimi i concetti di Hospice, Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) e Casa di Riposo. In realtà si tratta di tre strutture che presentano caratteristiche peculiari e che risultano molto diverse tra loro. Le differenze riguardano il tipo di pazienti che accolgono, il personale che vi lavora e i servizi che garantiscono. Vediamole nel dettaglio.
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La differenza tra Hospice e RSA
La prima differenza che può essere analizzata è quella tra gli Hospice e le RSA. In questo caso, il discrimine principale lo fanno i pazienti che le due strutture ospitano.
Negli Hospice, infatti, con formula residenziale o domiciliare, vengono accolti malati di qualunque età affetti da patologie croniche con prognosi infausta, che si trovano nella fase terminale della loro vita e necessitano ci cure mediche e assistenza sanitaria in modo completo e continuativo. Questo significa che l’Hospice è qualificabile come una struttura para-ospedaliera in cui operano medici, psicologi, infermieri e figure sociosanitarie con varie specializzazioni.
Nelle Residenze Sanitarie Assistenziali, invece, vengono accolti adulti o anziani non autosufficienti o con disabilità che hanno bisogno di trattamenti di lungo assistenza e di cure mediche e infermieristiche per il mantenimento o il recupero delle loro condizioni di salute. Non si tratta, però, di malati qualificabili come terminali. Perciò, le RSA sono dotate di personale medico, sociosanitario e infermieristico.
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La differenza tra RSA e Casa di Riposo
Ancora più marcata è la differenza tra RSA e Casa di Riposo (come tra quest’ultima e l’Hospice). Nella Casa di Riposo, infatti, vengono ospitati anziani totalmente o parzialmente autosufficienti che, dal punto di vista sanitario, non hanno bisogno di assistenza medica continuativa ma solo di un supporto infermieristico. Questo tipo di strutture, quindi, non hanno un carattere ospedaliero o para-ospedaliero ma si limitano ad offrire a persone fragili un luogo sicuro e protetto in cui vivere e socializzare.
In conclusione: tre strutture diverse per tre esigenze differenti
Da quanto evidenziato finora, appare chiaro un elemento: Hospice, RSA e Casa di Riposo sono strutture che rispondono ad esigenze profondamente diverse. Gli Hospice sono pensati per accompagnare il malato lungo la fase più delicata della sua vita, rendendone migliore la qualità attraverso la pratica della terapia del dolore e la somministrazione di cure palliative. Le RSA, invece, assistono pazienti che hanno bisogno di trattamenti medici lunghi e non meglio quantificabili dal punto di vista temporale, con la prospettiva, però, di poterli rimandare a casa, una volta recuperata una seppure parziale autosufficienza. Infine, la Casa di Riposo assolve alla funzione sociale di supportare degli anziani che si ritrovano spesso soli e in difficoltà.
Leggi anche come funziona il ricovero in Hospice
Chi può accedere ad un hospice: requisiti e modalità del ricovero
La possibilità di accesso di un malato ai servizi di un hospice, sia con modalità di ricovero in sede che con assistenza domiciliare, è legata alla sussistenza di tre requisiti fondamentali e alla presentazione della relativa domanda. Di seguito, tutte le informazioni.
Gli hospice sono strutture sanitarie particolari, che hanno una finalità specifica: quella di dare supporto ai pazienti affetti da una patologia con prognosi infausta, che si trovano nella fase terminale della loro vita e che hanno bisogno di un’assistenza continuativa. Per questo motivo, l’accesso agli hospice è limitato ai malati possessori di determinati requisiti e le modalità di ricovero sono attentamente disciplinati. Inoltre, è bene ricordare che la presa in carico del paziente da parte dell’hospice può avvenire mediante ricovero presso la clinica che nella modalità dell’assistenza domiciliare.
Leggi di più: Cos’è un hospice
Come si accede ai servizi di assistenza degli hospice: i requisiti
Come già accennato, i requisiti per poter richiedere il ricovero in un hospice o l’attivazione dell’assistenza domiciliare sono tre ed hanno a che fare con la patologia che affligge il paziente, con la sua aspettativa di vita e con il livello di assistenza di cui necessita.
Più nel dettaglio:
- Malattia a prognosi infausta. Ne fanno parte tutte quelle patologie a carattere cronico o evolutivo per le quali non sono disponibili terapie risolutive e che quindi sono destinate a condurre chi ne soffre al decesso. Nella maggior parte dei casi, tali patologie inguaribili, soprattutto nella loro fase finale, comportano una drastica diminuzione delle capacità del malato di far fronte alle proprie necessità di vita.
- Aspettativa di vita. Il paziente del quale è richiesta l’assistenza deve trovarsi nella fase terminale del decorso della sua patologia, con un’aspettativa di vita di sei mesi o inferiore.
- Necessità di assistenza. Il ricovero in hospice o il servizio di assistenza domiciliare si giustificano per l’impossibilità di garantire in altro modo al malato le cure e l’assistenza fisica e psicologica di cui ha bisogno. La scelta dell’una o dell’altra modalità dipendono anche dalla situazione specifica in cui versa il paziente e del tipo di sostegno medico che gli necessita.
Conosci la differenza tra Hospice, RSA e Casa di Riposo? Leggila qui
Le modalità di ricovero negli hospice
Se sussistono i requisiti elencati, è possibile richiedere il ricovero presso un hospice o l’attivazione del servizio di assistenza domiciliare, gestito dalla medesima struttura. Tale richiesta deve essere formalmente avanzata dal medico di medicina generale del paziente (nel caso quest’ultimo si trovi alloggiato nel suo domicilio) o dal medico che lo ha in cura presso un ospedale (nel caso di degente ricoverato). Ovviamente, la richiesta è concordata con i familiari o caregiver del malato e necessita del suo consenso, se capace di intendere e di volere.
Come accedere ai servizi del San Luca: Hospice residenziale e Assistenza domiciliare
Sedazione palliativa profonda e continua, 8 domande per conoscerla meglio
La sedazione palliativa profonda e continua è un atto terapeutico che permette di controllare le sofferenze di un malato terminale che presenti sintomi refrattari. Viene praticata nelle fasi finale della vita del paziente ed è per questo conosciuta anche come sedazione terminale.
Le fasi finali della vita di una persona affetta da una patologia con prognosi infausta possono essere caratterizzate da enormi sofferenze, dovute ai cosiddetti sintomi refrattari, cioè non trattabili in alcun modo se non diminuendo il livello di coscienza del paziente. È proprio a questo scopo che serve la sedazione palliativa profonda e continua. Tale pratica, quindi, rientra a pieno titolo nel perimetro delle cure palliative e della terapia del dolore. L’importanza della sedazione terminale nel garantire la qualità della vita del malato è tale da rendere utile dedicarle un articolo di approfondimento.
Cos’è la sedazione profonda e continua con finalità di cura palliativa
Una sintetica ed efficace definizione di sedazione palliativa si può rintracciare nei documenti ufficiali della Società Italiana Cure Palliative, che ne parla come di:
“un atto terapeutico che utilizza la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, fino alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo, altrimenti intollerabile per il paziente nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo stesso, che risulta, quindi, refrattario”.
Detto in termini più semplice, la sedazione continua e profonda fa parte delle cure palliative ed è a tuti gli effetti un atto terapeutico che mira diminuire consapevolmente il livello di coscienza per alleviare il dolore e le sofferenze patite da un malato affetto da patologia con prognosi infausta e in fase terminale.
Cosa dicono la legge sulla sedazione palliativa e le relative linee guida?
I principali riferimenti normativi che affrontano il tema della sedazione palliativa continua e profonda sono:
- la Legge n. 219 del 22 dicembre 2017 denominata “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento” (G.U. Serie Generale n.12 del 16 gennaio 2018);
- il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica intitolato Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, datato 29 gennaio 2016;
- le raccomandazioni della SICP sulla Sedazione Terminale/Sedazione Palliativa, 2007.
Quando si utilizza la sedazione terminale?
La sedazione palliativa può essere somministrata quando si verificano due requisiti:
- il paziente destinatario del trattamento è affetto da una patologia inguaribile nello stadio terminale (il decesso è atteso entro poche ore o giorni);
- sono presenti i cosiddetti sintomi refrattari, cioè delle manifestazioni dolorose incontrollabili che non possono essere alleviate mediante la somministrazione di farmaci e che non trovano sollievo neanche con altri interventi terapeutici.
Perché sedare un malato terminale?
La ragione che muove la scelta di praticare la sedazione profonda è la stessa che anima tutta la normativa sulle cure palliative e la terapia del dolore: risparmiare al malato delle sofferenze ingiustificate e inumane per migliorarne la qualità della vita, nella fase di accompagnamento vero la morte.
Chi può richiedere la sedazione di un malato terminale e che ruolo ha il consenso dello stesso?
La decisione di praticare la sedazione profonda ad un malato terminale è il risultato di una scelta che vede la partecipazione del personale sanitario che ha in cura il paziente, dei suoi familiari oltre che ovviamente del diretto interessato. Anzi, il consenso informato del malato è indispensabile per poter procedere alla sedazione, anche se va contro il consiglio di medici e parenti stretti.
Come avviene la sedazione profonda continua e con quali farmaci?
La sedazione palliativa continua e profonda si attua mediante la somministrazione di appositi farmaci, decisi dal medico responsabile. Può trattarsi di farmaci sedativi, oppioidi e neurolettici. In alcuni casi, si può anche valutare l’utilizzo di anestetici o barbiturici.
Quanto dura la sedazione palliativa?
Essendo finalizzata ad accompagnare il paziente verso una morte serena, la sedazione profonda si protrae in modo continuativo fino al decesso. Secondo le statistiche più recenti, il tempo medio di durata della sedazione palliativa è di 2,8 giorni.
Dove si pratica la sedazione profonda continua?
La sedazione palliativa può essere pratica nel luogo di degenza del malato, quindi sia presso il suo domicilio che in una struttura sanitaria, come ospedale, casa di cura o hospice.
Cosa sente e cosa prova il malato terminale quando è sedato?
Il livello di coscienza a cui viene portato il malato dipende dalle scelte del medico curante, concordate con lui e con i familiari, e, di conseguenza, dal mix di farmaci che vengono somministrati. In alcuni casi, ci si limite a indurre uno stato di torpore, in altri si giunge fino al sonno profondo con totale annullamento della coscienza.
Perché la sedazione palliativa profonda e continua non è considerata eutanasia?
Accade spesso, soprattutto nel sentire comune, che la sedazione profonda applicata ad un malato terminale sia scambiata per una forma di eutanasia. Un errore che qualificherebbe tale atto come illegale, vista la non praticabilità dell’eutanasia nell’ordinamento italiano. In realtà, però, la sedazione palliativa è cosa ben diversa dall’eutanasia. Quest’ultima, infatti, è un atto che provoca direttamente la morta. La sedazione terminale, invece, non accelera in alcun modo il decesso ma rende solo sopportabile la sofferenza.
Dolore cronico, come riconoscerlo e come affrontarlo
Il dolore cronico è una condizione potenzialmente invalidante, che peggiora notevolmente la qualità della vita. Un dolore perenne, collegato a patologie e condizioni fisiche che, in alcuni casi, possono essere non curabili. In questo approfondimento, tutte le informazioni per conoscere meglio il dolore cronico: definizione, sintomi e possibili terapie per affrontarlo (farmacologiche, fisiche e psicologiche).
Provare dolore fisico è qualcosa di estremamente naturale per l’essere umano, anche se non piacevole. L’esperienza del dolore appartiene all’uomo fin dal momento della sua nascita ed è di vitale importanza, visto che funge da campanello di allarme e da freno contro pericoli e malattie. Si può avvertire dolore più o meno frequentemente e in maniera più o meno intensa (dipende anche dalla propria soglia di sopportazione), ma comunque, almeno ogni tanto, al dolore fisico non si sfugge. D’altronde, il dolore può nascere da una molteplicità di accadimenti: un malessere passeggero (come il mal di testa o il mal di denti), una malattia (come il mal di pancia in chi accusa una gastrite), un infortunio (basta anche una semplice storta ad una caviglia). In tutti questi casi, però, il dolore ha una caratteristica: è temporaneo. Può durare pochi istanti, alcuni minuti, magari ore, addirittura qualche giorno. Alla fine, però, se ne va. Il dolore cronico, invece, non passa mai. Resta, a volte più forte, a volte più debole, ma sempre presente. Ed è questo che lo rende così preoccupante e così pericoloso, perché capace di rovinare dalle fondamenta la qualità della vita di chi ne soffre, risultando potenzialmente invalidante e conducendo anche sul ciglio di profonde depressioni.
Cos’è il dolore cronico: definizione e cause
Per capire bene di cosa si parla quando si nomina il dolore cronico è bene partire dalla sua definizione, che è naturalmente legata a quella generica di dolore. In medicina, secondo quando sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il dolore è definibile come:
un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a un danno tissutale potenziale o in atto.
Perché invece si possa parlare di dolore cronico deve sussistere almeno una delle seguenti condizioni:
- durata superiore a 3 mesi (o superiore a 1 mese da quando si sono risolti la lesione e/o il disturbo che lo hanno provocato);
- ricorrenza da mesi o anni;
- associazione a una patologia cronica o a una lesione inguaribile (come tumori, artrite o fibromialgia).
Il dolore cronico, quindi, può avere diverse cause ed essere localizzato in differenti parti del corpo. A seconda della sua origine, si può distinguere tra:
- dolore cronico neuroplastico: è legato a un danno ai tessuti;
- dolore cronico nocicettivo (o nociplastico): è conseguenza di una disfunzione del sistema nervoso centrale.
Un'altra classificazione rilevante, sempre correlata alle cause del dolore cronico, è quella tra:
- dolore oncologico: sofferto dai pazienti affetti da tumore e che ha una sua specificità;
- dolore non oncologico: sofferto da pazienti non malati di tumore.
Inoltre, è bene specificare che il dolore cronico tende ad autoalimentarsi, perché provoca un’eccessiva sensibilizzazione delle cellule del sistema nervoso e quindi porta ad avvertire dolore anche in situazione che altrimenti sarebbero innocue.
Leggi anche l’approfondimento sul caregiver familiare
I sintomi correlati al dolore cronico
Parlare di sintomi del dolore cronico può sembrare contraddittorio, perché il dolore è esso stesso un sintomo. Questa espressione, però, aiuta a mettere a fuoco un concetto chiaro: quando il dolore si cronicizza finisce praticamente per trasformarsi in una patologia autonoma, correlata ad un altro disturbo, condizione o malattia. E in quanto tale, è accompagnato da sintomi collegati. La sintomatologia più frequentemente associata al dolore cronico è composta da:
- disturbi del sonno;
- perdita dell’appetito;
- perdita di peso;
- ansia;
- depressione.
Cosa fare contro il dolore cronico
Di fronte al manifestarsi di una condizione di dolore cronico, la prima cosa da fare, per poter approntare la corretta terapia, è quella di identificarne la causa. Questo, infatti, permette di capire se tale causa può essere rimossa o meno. Nel primo caso, si può procedere in parallelo ad alleviare il dolore e a rimuoverne la causa scatenante. Nel secondo e più frequente caso, invece, l’unica possibilità è quella di intervenire sul dolore per attenuarlo. L’obbiettivo è sempre e comunque il miglioramento della qualità della vita del paziente.
I modi per affrontare il dolore cronico sono essenzialmente riconducibili a tre tipologie (spesso utilizzate in sinergia):
- terapia farmacologica: analgesici, anticonvulsivanti ma anche antidepressivi ed oppiacei;
- terapia fisica: fisioterapia e attività fisica a basso impatto;
- psicoterapia: terapia occupazionale o comportamentale;
- terapie alternative: agopuntura e massaggi.
In conclusione, è bene sottolineare che, quando la causa del dolore cronico è una patologia cronica a prognosi infausta (come per i malati di tumore), il trattamento assume caratteristiche particolari, puntualmente disciplinate dalla legge. Si parla, in queste circostanze, di terapia del dolore e cure palliative.
Stress del caregiver, quando l’assistenza di un malato mette a rischio burn-out
Il ruolo del caregiver familiare può essere fonte di forte stress. Inn medicina, si parla di sindrome del caregiver (o burden) per indicare quella forma di burn out psicologico che colpisce chi si prende cura di un familiare non autosufficiente. In questo approfondimento, vengono analizzate cause e sintomi della sindrome del caregiver, nonché gli indici per misurare il livello di stress e le possibili cure.
Prendersi cura di una persona non autosufficiente è un impegno particolarmente gravoso e fonte di stress cronico, perché continuo e pesante, sia sotto il profilo fisico che sotto quello psicologico. La figura del caregiver familiare, cioè di colui che diventa il punto di riferimento del malato, è pressata da numerose incombenze ed è chiamata spesso a sopportare notevoli carichi emotivi. È il caregiver, infatti, che si occupa di tutte le pratiche amministrative della vita quotidiana dell’assistito, da quelle più a banali a quelle più complesse, e che monitora lo stato della sua salute, eventualmente aiutandolo nell’assunzione dei farmaci e nell’esecuzione delle terapie. Inoltre, sempre al caregiver compete l’assistenza quotidiana: preparare il cibo, lavare e stirare i vestiti, pulire la casa (nelle ipotesi di assistenza domiciliare) e qualsiasi altra attività abbia a che fare con la routine di un individuo. Il tutto, nella maggior parte dei casi, in parallelo con i doveri della propria vita personale e familiare. Ecco perché, non sono rari i casi di caregiver che arrivano ad ammalarsi a causa di tanta pressione. È la cosiddetta sindrome del caregiver (o anche stress o burn out o burden del caregiver). Una patologia vera e propria, mentale e fisica, che non deve essere assolutamente sottovalutata.
Sindrome del caregiver e rischio burn-out: di cosa si tratta
Andando più nel dettaglio, la sindrome del caregiver si presenta come una malattia da stress molto simile al burn out, che provoca evidenti sintomi psicofisici. Se trascurata, tende a diventare cronica e a sfociare o in una forma di distacco emotivo dal familiare che si assiste o, al contrario, in un iper-coinvolgimento (e quindi anche in una auto-colpevolizzazione se le condizioni di salute dell’assistito peggiorano). In entrambe i casi, gli effetti non sono positivi, né per il caregiver stesso, né per la persona che è affidata alle sue cure.
Come si manifesta il burden del caregiver
Per rendersi conto se un caregiver si trova in condizioni di burden e sta sviluppando la sindrome da stress è possibile osservare l’eventuale presenza di alcuni sintomi specifici, che ricordano da vicino quelli della depressione. I più comuni sono:
- sonno disturbato e insonnia;
- stanchezza fisica;
- mancanza di appetito;
- cattivo umore frequente;
- difficoltà di concentrazione e di memoria;
- irritabilità;
- ansia.
Misurare il carico di lavoro con il Caregiver Burden Inventory
Il manifestarsi di uno o più di questi segnali deve destare preoccupazione e portare il caregiver (o chi gli è vicino) a contattare qualcuno che possa aiutarlo (ad esempio, uno psicologo o psicoterapeuta). La cosa migliore, però, sarebbe non arrivare mai al punto di rottura ma rallentare prima. Il problema della sindrome del caregiver, però, sta nella difficoltà di misurare il reale carico sopportato da chi assiste. Uno degli strumenti più utilizzati, che la scienza sta man mano affinando, è il Caregiver Burden Inventory, un questionario che prova a quantificare tale carico. Si compone di 24 domande, a cui bisogna rispondere indicando quanto si è d’accordo con la relativa affermazione, in una scala da 0 a 4. I quesiti sono organizzati in 5 aree:
- Carico oggettivo: tempo effettivamente dedicato all’assistenza del familiare;
- Carico evolutivo: percezione di essere tagliato fuori rispetto alla vita nromale di una persona della stessa età;
- Carico fisico: effetti dell’attività da caregiver sulla propria salute;
- Carico sociale: conseguenze negative dell’attività da caregiver sui rapporti con il resto della famiglia, con il proprio coniuge o sul lavoro;
- Carico emozionale: reazioni che si hanno nei confronti del familiare assistito.
Come aiutare il caregiver: soluzioni e rimedi contro lo stress
Riuscire a misurare il carico sopportato dal caregiver e quindi il livello di stress è il primo passo per affrontare il problema. Le risposte che si possono attuare contro la sindrome del caregiver dipendono ovviamente dalla gravità della situazione. Se ci si trova ancora agli inizi, è possibile che sia risolutivo un sostegno proveniente dall’interno dello stesso nucleo familiare, come l’iniziativa di un congiunto che si offre per svolgere alcuni compiti che spetterebbero al caregiver o di dargli una mano. Allo stesso modo, in una fase iniziale o addirittura preventiva può essere molto utile il supporto psicologico spesso offerto da associazioni senza scopo di lucro o dalle stesse strutture che ospita i malati non autosufficienti (come gli hospice). Se lo stress, invece, si è già trasformato in burn out, è necessario farsi aiutare da uno specialista e intraprendere un percorso di psicoterapia.
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