Post-caregiving, la necessità di ripensare la propria vita dopo la fine dell’assistenza
La depressione che può colpire il caregiver dopo la morte della persona assistita è molto meno studiata rispetto allo stress del caregiver ma non è di certo meno grave. La sindrome da post caregiving richiede di essere affrontata con il supporto di uno specialista, nella forma della terapia individuale o di quella di gruppo. Ecco, nel dettaglio, di cosa si tratta e quali sono i suoi sintomi.
In una società in cui la figura del caregiver acquista sempre più importanza, è giusto interrogarsi profondamente sulle implicazioni psicologiche ed emotive che questo ruolo comporta. Ampiamente studiato, ad esempio, è il cosiddetto stress del caregiver, cioè la condizione di sofferenza fisica e psicologica che può investire chi è chiamato ad occuparsi a tempo pieno di una persona non autosufficiente e si sente gravato da una pesante responsabilità. Meno affrontato, invece, è il tema della sindrome da post-caregiving, che può manifestarsi nella fase successiva alla morte dell’assistito, quando il caregiver è chiamato a ristrutturare radicalmente la propria vita. D’altra parte, in alcune circostanze l’attività come caregiver può durare anni. Anche nel caso del post-caregiving, quindi, l’impatto in termini di stress psico-fisico può essere molto forte e necessitare di un aiuto specialistico. La sindrome da post-caregiving, infatti, è una forma seria di depressione, che può colpire indifferentemente sia caregiver familiare che caregiver professionali.
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Cosa succede quando il caregiving finisce
Per comprendere la portata di questo problema, è bene focalizzarsi su cosa può accadere nella mente del caregiver dopo la fine del suo impegno. È un passaggio cruciale, che segna l’esplodere di emozioni potenti e contrastanti. Da una parte, c’è la naturale sofferenza, ancor più profonda se chi viene a mancare è una persona cara. Sofferenza che però è chiamata a bilanciarsi con una sensazione uguale e contraria: il sollievo per non dover più affrontare le fatiche quotidiane dell’assistenza. Questo contrasto genera in molti casi un forte senso di colpa, una sorta di vergogna, aggravata magari anche da forme di colpevolizzazione condensate in una domanda rivolta a sé stessi: potevo fare di più e meglio? Possono poi esserci dei contraccolpi fisici nel post-caregiving. Ad esempio, l’ex-caregiver può accusare stanchezza e mancanza di energia, proprio quella che non era venuta meno nel lungo periodo di assistenza.
Questo turbinio di emozioni può sfociare in sintomi che sono spia evidente di una depressione e di un esaurimento, come:
- Senso di sopraffazione;
- Preoccupazione costante;
- Irritabilità;
- Problemi con il cibo (scarso appetito o fame eccessiva);
- Apatia
Come superare la sindrome da post-caregiving
Superare la depressione post-caregiving non è semplice. La soluzione migliore è quella di cercare un aiuto professionale, intraprendendo un percorso di sostegno con uno psicologo o psicoterapeuta. Solo un esperto, infatti, è in grado di accompagnare il caregiver nel sentiero di interpretazione e accettazione dei suoi sentimenti contrastanti. Sul tema si è ancora studiato e dibattuto poco, come dimostra anche la scarsa disponibilità di articoli e studi in proposito. Chi se ne è occupato professionalmente, però, sottolinea la possibilità di due distinti approcci: la terapia individuale e la terapia di gruppo. Inoltre, di notevole importanza è strutturare dei percorsi formativi dedicati ai caregiver che prendano in considerazione anche il tema del ritorno alla vita normale dopo la fine del caregiving.
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Conservazione corretta dei farmaci a casa: le regole da seguire
La corretta conservazione dei medicinali a casa è uno dei compiti che spettano al caregiver, sia esso familiare o professionale. È questa figura, infatti, a dover tenere sotto controllo la somministrazione dei farmaci al paziente che si trova in assistenza domiciliare e a gestire il cosiddetto armadietto delle medicine. Una responsabilità cruciale ma che si può soddisfare facilmente seguendo poche semplici regole.
Uno dei bisogni più pressanti per un malato non autosufficiente o che si trovi in fase terminale è l’assunzione regolare e corretta dei farmaci. In molti casi, infatti, i medicinali sono fondamentali per garantire un prolungamento della vita del paziente ma soprattutto un miglioramento della sua qualità. L’importante, però, è che l’assunzione avvenga nel dosaggio giusto e secondo le modalità indicate dal medico di fiducia. Ecco perché questo è considerato uno dei compiti più delicati che un caregiver è chiamato ad assumersi nei casi di assistenza domiciliare. Un incarico che arriva a comprendere anche la corretta conservazione delle medicine a casa. Ecco le risposte ai principali dubbi sul tema.
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Dove conservare i farmaci
Le regole sul luogo di conservazione dei farmaci variano da medicinale a medicinale, perciò bisogna prestare molta attenzione all’etichetta, che indica i requisiti in termini di temperatura e umidità. Alcune medicine, infatti, vanno tenute in luoghi asciutti, lontane da fonti di umidità e di calore (massimo 25°-30°). In altri casi, invece, sono necessari luoghi più freschi e la conservazione può avvenire in frigorifero. In ogni caso, è bene che il posto in cui si trovano i medicinali non sia raggiungibile dai bambini.
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La data di scadenza delle medicine
L’altro fattore fondamentale nella conservazione dei farmaci è la data di scadenza, cioè quella entro cui il farmaco deve essere consumato, altrimenti va buttato. Somministrare un farmaco scaduto, infatti, è sempre vietato, perché potrebbe essere non più efficace o addirittura pericoloso. Ovviamente, la data di scadenza è valida se si rispettano le regole relative al luogo di conservazione, altrimenti il farmaco rischia di deteriorarsi prima del tempo.
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La durata dei farmaci dopo l’apertura della confezione
Un discorso a parte lo meritano quei farmaci la cui confezione contiene più dosaggi, destinati ad essere consumati in più giorni (è il caso, ad esempio, delle scatole o dei tubetti di pasticche). È quinti lecito chiedersi quanto duri un farmaco una volta aperto (sempre se conservato in un luogo idoneo). La risposta dipende dalla tipologia di medicinale.
Scadenza dei colliri
Per quanto riguarda i colliri, è necessaria un ulteriore distinzione, tra quelli monodose e quelli in flaconcino.
Colliri monodose. La singola pipetta, se chiusa bene e tenuta in frigo dopo l’apertura, può essere riutilizzata nelle 12 ore successive.
Colliri in flaconcino. Una volta aperti, vanno conservati in frigorifero e durano al massimo 30 giorni (a volte 15). La caratteristica dei colliri, infatti, è che contengono una quantità di conservanti molto bassi, che non gli permette di durare nel tempo.
Scadenza di compresse e capsule
Anche in questo caso, serve distinguere tra le pasticche che si trovano in un blister e quelle confezionate in flaconi.
Compresse e capsule in blister. All’interno del blister che le contiene, sono confezionate separatamente; quindi, l’apertura della scatola non inficia sulla loro durata. Per questo motivo, possono essere conservate fino alla data di scadenza indicata.
Compresse e capsule in flacone. Una volta aperto il coperchio del flacone, le pasticche vanno consumate entro 4/6 mesi.
Scadenza delle pomate
Creme, unguenti e gel hanno una durata di circa 3/6 mesi dal momento dell’apertura, se conservati in modo idoneo, cioè chiudendo bene il tappo. È bene precisare che l’uso di una pomata dopo la scadenza non arreca danni ma potrebbe avere effetti più blandi o completamente nulli.
Scadenza degli sciroppi
Dal momento dell’apertura del flacone, gli sciroppi durano circa 2 mesi. Nel caso di antibiotici ricostruiti, la polvere sigillata nell’apposito contenitore può essere conservata fino alla data di scadenza indicata. Se invece gli antibiotici ricostruiti vengono preparati con l’aggiunta di acqua, possono essere conservati tra i 7 e i 15 giorni al massimo.
Scadenza fiale e fialoidi
Quelli contenuti in fiale e fialoidi sono i farmaci con il minor tempo di conservazione, una volta aperti. Dal momento che il contenitore non è più integro, infatti, vanno consumati entri pochi minuti, perché non essendo sterili possono contaminarsi facilmente.
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Consigli generali per la conservazione dei farmaci a casa
Infine, può essere utile per un caregiver tenere a mente quattro semplici buone pratiche che facilitano la corretta gestione dei farmaci a casa:
- Conservare sempre il foglietto illustrativo del farmaco fino a che non si è finito di consumarlo;
- Tenere in ordine l’armadietto dei medicinali, conservando con cura le scatole;
- Non fare confusione con le scatole dei medicinali
- Nella somministrazione, attenersi sempre scrupolosamente alle indicazioni del medico
L’importanza di lavarsi bene le mani (e come farlo)
Quando si ricopre il ruolo di caregiver di una persona non autosufficiente, mantenere un’igiene corretta è fondamentale, soprattutto per le mani. Prendersi cura di un malato, infatti, significa stare in contatto con un essere umano che si trova in una condizione di fragilità fisica, che lo espone più facilmente e più gravemente all’aggressione di batteri e agenti patogeni. Ecco perché è bene apprendere quelle poche ma essenziali regole che permettono di lavarsi bene le mani ogni volta che serve. Di seguito una breve guida pratica.
Quando è necessario lavarsi le mani?
In generale, nella vita quotidiana, la necessità di lavarsi le mani insorge ogni volta che si entra in contatto con materiali, oggetti o superfici non igienizzate, soprattutto e poi si devono compiere attività che prevedono il contatto con il cibo o con parti delicate del corpo. Per un caregiver, il rito del lavaggio delle mani assume ancora più importanza, soprattutto prima di:
- maneggiare alimenti (come quando si preparano i pasti al proprio assistito);
- maneggiare farmaci;
- procedere a una medicazione o a una iniezione;
- toccare una ferita;
- indossare i guanti monouso.
In particolare, questa accortezza assume ancora maggiore rilievo se si sono fatte precedentemente attività che espongono al rischio contaminazione, come aver frequentato luoghi pubblici, aver maneggiato cibo crudo o scarti di vario genere, aver incontrato persone malate o aver avuto contatto con animali.
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Come lavarsi bene le mani con acqua e sapone
Per essere sicuri di aver lavato bene le mani, basta seguire la seguente procedura.
- Bagnare le mani
- Applicare una quantità di sapone sufficiente a diffonderlo su tutte le mani
- Strofinare le mani palmo contro palmo
- Strofinare il dorso di ciascuno mano utilizzando il palmo dell’altra
- Strofinare le mani palmo contro palmo intrecciando le dita tra loro
- Strofinare il dorso delle dita contro il palmo dell’altra mano, tenendo le dita strette tra loro
- Frizionare ciascun pollice con il palmo della mano opposta
- Frizionare le dita di ciascuna mano tenendole strette e strofinandole con rotazione sul palmo della mano opposta
- Risciacquare con acqua entrambe le mani
- Asciugare le mani con salviette monouso
- Chiudere il rubinetto proteggendo la mano con la salvietta
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Iniezioni sottocutanee: dove e come farle
Le iniezioni sottocutanee sono un metodo molto diffuso di somministrazione dei medicinali, nonché una pratica con cui molti caregiver sono chiamati a prendere dimestichezza. Imparare a fare bene le iniezioni sottocute, quindi, è molto importante, sia per il malato che per chi se ne prende cura. Di seguito, una breve guida in 6 domande per avere tutte le informazioni essenziali sulle iniezioni sottocutanee.
Cosa si intende per iniezione sottocutanea
Le iniezioni sottocutanee sono una tipologia particolare e piuttosto diffusa di punture, caratterizzate dal fatto che il farmaco viene iniettato nei tessuti che si trovano sotto la pelle. La via sottocutanea prevede che il medicinale venga somministrato, attraverso una siringa di 1-2 ml. Le iniezioni sottocutanee sono in genere più dolorose rispetto a quelle intramuscolari, per via della presenza nel tessuto sottocutaneo di più terminazioni nervose rispetto al muscolo.
Per quali farmaci si usano le iniezioni sottocute
Le iniezioni sottocutanee sono utilizzate per la somministrazione di moltissimi farmaci. Questo tipo di punture si rivelano particolarmente indicate per i medicinali ad assorbimento lento e continuo, come ad esempio la morfina, l’insulina o l’eparina.
Dove fare un’iniezione sottocutanea
I siti consigliati per praticare un’iniezione sottocutanea sono:
- Braccio: parte esterna superiore;
- Pancia/addome: in prossimità dell’ombelico;
- Coscia: parte anteriore.
In caso di trattamenti prolungati (come nel caso dell’insulina per i diabetici) si devono scegliere di volta in volta siti d’iniezione diversi per evitare complicanze localizzate.
Come fare un’iniezione sottocutanea
Ecco di seguito un breve elenco dei passaggi essenziali da seguire per fare un’iniezione sottocutanea nel miglior modo possibile:
- Lavarsi accuratamente le mani;
- Aspirare il farmaco dalla fialetta (se il farmaco è composto da liquido e polvere, bisogna prima aspirare il liquido, iniettarlo nella fiala della polvere, miscelare e poi aspirare la miscela creata);
- Girare la siringa con l’ago verso l’altro e verificare l’eventuale presenza di bolle d’aria;
- Nel caso vi siano bolle, vanno rimosse dando piccoli colpi con le dita sulla siringa e premendo leggermente lo stantuffo (attenzione, però, perché nel caso di siringhe già pronte, la bolla d’aria eventualmente presente va tenuta, perché è utile all’assorbimento del farmaco);
- Disinfettare la zona dove si vuole eseguire l’iniezione;
- Con il pollice e l’indice della mano libera, stringere una porzione di pelle;
- Inserire l’ago quasi parallelamente alla cute;
- Una volta raggiunto il sottocute, iniettare il farmaco;
- Estrarre l’ago rapidamente.
Iniezioni sottocute e bolle d’aria
Rimuovere le bolle d’aria presenti nella siringa dopo la preparazione del farmaco è, come detto, una buona pratica. È opportuno però chiarire che l’eventuale presenza di piccole bollicine, in caso di iniezione sottocutanea, non crea problemi o rischi per la persona a cui viene somministrato il farmaco.
Possibili complicanze di un’iniezione sottopelle
L’iniezione sottocutanea è una pratica piuttosto sicura, che non presenta complicanze, se non lievi, anche quando non è eseguita in modo totalmente corretto. I possibili effetti indesiderati più comuni sono la formazione di lividi o rigonfiamenti nel sito di iniezione.
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Cure palliative domiciliari, chi ne ha diritto e come richiederle
Le cure palliative domiciliari rientrano nei servizi che, dal 2017, fanno parte dei Livelli Essenziali di Assistenza che lo Stato italiano garantisce a tutti i cittadini malati. In questo approfondimento, una breve guida al tema, per sapere quali cure palliative possono essere somministrate anche a casa e cosa bisogna fare per attivare il servizio.
Per un malato affetto da una patologia con prognosi infausta (e anche per la sua famiglia), le cure palliative rappresentano uno strumento fondamentale per vedersi garantita un’adeguata qualità della vita, pur nella sua fase terminale. Attraverso queste particolari terapie, infatti, si possono alleviare le sofferenze sia fisiche che psicologiche del malato. Le cure palliative, quindi, sono un vero e proprio atto di rispetto e di giustizia, reso possibile dai progressi della medicina e tutelato dallo Stato italiano come un diritto a tutti gli effetti. Non a caso, queste terapie, dal 2017, fanno parte dei Livelli Essenziali di Assistenza, cioè quei servizi sanitari che devono essere assicurati a tutti i cittadini, sempre e comunque. Così concepite, le cure palliative possono e devono essere somministrate sia nelle strutture sanitarie (ospedali, cliniche, hospice) sia presso il domicilio del paziente. In quest’ultimo caso, si parla di cure palliative domiciliari, argomento a cui è dedicato questo approfondimento.
Quali cure palliative possono essere somministrate a casa
Parlando di cure palliative domiciliari, la prima domanda che viene in rilievo è quella relativa al tipo di terapie che possono essere somministrate a casa. In realtà, non ci sono differenze tra le cure palliative a cui può accedere un malato ricoverato in hospice rispetto a quello che sceglie di rimanere nella propria abitazione. Allo stato attuale delle conoscenze mediche, infatti, le diverse tipologie di cure palliative possono essere gestite anche fuori da una struttura sanitaria attrezzata, sia che si tratti di terapie di livello base che di terapie di livello avanzato.
I requisiti per accedere ad un Hospice
Chi ha diritto alle cure palliative domiciliari?
Altro dubbio che è opportuno chiarire è quello relativo al diritto di accesso alle cure palliative domiciliari. Come già anticipato, rientrando tra i Livelli Essenziali di Assistenza, le cure palliative sono assicurate a tutti coloro che abbiano una malattia considerata inguaribile dalla medicina, cioè per la quale non esistano terapie in grado di garantire la guarigione o quantomeno un significativo prolungamento dell’aspettative di vita. Inoltre, le cure palliative cosiddette precoci o simultaneo sono un diritto anche per coloro che non sono ancora considerati malati terminali ma che si stanno sottoponendo a percorsi terapeutici particolarmente pesanti e dolorosi (come alcune forme di chemioterapia). In ogni caso, le cure palliative sono sempre gratuite (quindi a carico del Sistema Sanitario Nazionale), anche nell’ipotesi che si opti per la loro somministrazione a casa.
Come si attivano le cure palliative a domicilio
Anche per quanto riguarda le modalità di accesso al servizio, non c’è distinzione tra le cure palliative domiciliari e quelle erogate in una struttura sanitaria. In entrambe i casi, la richiesta, per conto del malato o dei suoi familiari, deve essere fatta dal medico del SSN che ha in cura il paziente o dalla struttura in cui questo è ricoverato e assistito.
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Elaborazione del lutto, 5 fasi per superare la perdita di una persona cara
L’elaborazione del lutto, secondo il modello della Kubler-Ross, attraversa 5 fasi, necessarie per dare un senso alla sofferenza provata dopo la morte di una persona cara. Quando si affronta la perdita di una persona caro, può essere utile affidarsi al sostegno di un professionista, psicologo o psicoterapeuta. Vediamo perché.
Trovarsi di fronte alla morte di una persona cara è spesso un evento traumatico che ha forti ripercussioni su chi lo vive. Eppure, il lutto è una componente ineludibile della vita umana. La perdita di un amico o un parente, purtroppo, è una situazione in cui chiunque, prima o poi, si viene a trovare. Ecco perché è necessario riuscire ad affrontare al meglio questi momenti e liberare le proprie emozioni, magari anche facendosi supportare da professionisti.
Cosa significa elaborare un lutto
In psicologia (e ormai anche nel linguaggio comune) si parla di elaborare il lutto, facendo riferimento proprio a quel periodo di sensazioni forti attraverso cui è necessario passare per assimilare pienamente una perdita, senza lasciarsene schiacciare. Nella maggior parte dei casi, è un processo che avviene spontaneamente con il passare del tempo, più o meno lungo e sofferente. In alcune circostanze, invece, può necessitare di un supporto psicologico. Elaborazione del lutto non significa dimenticare la persona cara scomparsa e lasciarsela alle spalle ma, anzi, è il modo migliore per conservare al meglio il suo ricordo e, allo stesso tempo, continuare con serenità la propria vita.
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Le 5 fasi dell’elaborazione del lutto
Nel processo di elaborazione del lutto, si possono rintracciare 5 fasi che possono alternarsi senza un ordine preciso: le emozioni non seguono delle regole, possono essere miste e sovrapporsi.
Negazione. Lo shock iniziale conseguente al lutto e il forte dolore che ne scaturisce portano a rimuovere l’evento stesso. Pur consapevoli razionalmente di cosa è accaduto, ci si scopre freddi e privi di reazioni, come se nulla fosse successo. Spesso ci si spaventa o ci si vergogna della propria impassibilità di fronte alla perdita, scambiandola per insensibilità. Non lo è affatto. Al contrario, è un profondo segno di sofferenza.
Rabbia. Si manifestano emozioni forti: disperazione, paura e rabbia. Sensazioni che possono esplodere in tutte le direzioni: verso sé stessi, verso dio (per chi crede), verso gli altri familiari o amici, verso i medici ed addirittura verso la persona scomparsa, colpevole di essersene andata. È un sentimento irrazionale ma che segna un’importante passo avanti: la presa di coscienza che il lutto c’è davvero stato.
Contrattazione. In questa fase la persona cerca di fare i conti con sé stessi e con la propria capacità di riprendere in mano le redini della vita. Si cerca di ricostruire una routine diversa, di colmare i vuoti, di adeguarsi a nuovi equilibri.
Depressione. In questa fase si comincia a prendere consapevolezza della perdita. Un delicato passaggio in cui ci si sente spesso tristi e spenti, con poca voglia di fare e di impegnarsi nella vita di tutti i giorni. Si procede con lentezza, tra passi avanti ed indietro.
Accettazione. Quando si ha avuto modo di elaborare quanto sta succedendo intorno a se stessi è il momento in cui si riesce a vedere in modo nitido quello che è successo, a collocarlo nel flusso della vita e a ripartire. Questo non significa necessariamente recuperare un benessere totale ma accettare la situazione e dargli un senso, una logica. Si spegne la rabbia e la frustrazione e il ricordo si fa più sano.
Un aiuto per gestire la perdita e evitare il lutto patologico
Il passaggio da una fase all’altra dell’elaborazione del lutto e la durata di ciascuna dipendono da numerosi fattori e variano da persona a persona e da situazione a situazione. Solitamente, il processo di superamento della perdita trauma avviene in modo naturale. Possono però verificarsi situazioni in cui la persona colpita dalla morte di un amico o di un familiare fatichi a elaborare la perdita e ad uscirne. In questi casi si può arrivare a parlare di lutto patologico, che può essere causato da una molteplicità di fattori, come una particolare fragilità psicologica o uno shock più potente del previsto. Di certo, si tratta di una condizione che non deve essere sottovalutata e che spesso necessita dell’intervento di uno specialista, psicologo o psicoterapeuta. In un momento di difficoltà come quello che segue a una grave perdita, lasciarsi aiutare, nel caso se ne avverta il bisogno, è la cosa migliore che si possa fare. Tanto è vero che nelle strutture come gli hospice, che si prendono cura di malati terminali, tra i servizi offerti c’è il sostegno psicologico, rivolto non solo al paziente ma anche ai suoi familiari. Un supporto utile ad evitare anche casi di lutto patologico.
Chi può accedere ad un hospice?
Strategie di coping, un aiuto contro lo stress del caregiver e il rischio burn out
Le strategie di coping rappresentano un’opportunità per combattere lo stress del caregiver ed evitare situazioni di burn out. In questo approfondimento, una panoramica su cosa si intende per coping e su quali sono le abilità che possono essere sviluppate per far fronte a pressioni ed eventi negativi esterni.
Gli impegni che gravano su un caregiver, sia esso familiare o professionale, lo sottopongono a forti pressioni fisiche ed emotive, tali da poter far emergere anche stati di profondo stress ed episodi di burn out. Fortunatamente, negli anni, a livello medico e psicologico, si sono acquisite sempre più consapevolezza e attenzione su questa dimensione di sofferenza che colpisce chi assiste una persona non autosufficiente. Non a caso, gli hospice offrono servizio di assistenza psicologica anche ai familiari, oltre che al malato. Spesso, invece, la percezione del disagio che vive un caregiver è minore proprio tra coloro che lo circondano e potrebbero in qualche modo dargli un supporto. È fondamentale, quindi, fare formazione e informazione su questo tema, sia direttamente verso i caregiver che verso tutte le persone che vi entrano in contatto. Ed uno degli aspetti su cui è cruciale incentrare questa attività divulgativa è quello delle possibili soluzioni e forme di supporto che possono essere attivate quando si ravvisa un caso di stress del caregiver. Tra queste, rientrano le strategie di coping.
Cosa sono il coping e le strategie di coping
In italiano, il termine (precisamente il verbo) inglese coping può essere tradotto con affrontare o fronteggiare. La psicologia se ne è appropriata per indicare tutta una serie di comportamenti virtuosi che permettono agli esseri umani di reagire e far fronte alle situazioni che possono provocare sofferenza e conflittualità. Quindi, le strategie di coping (o abilità di coping) sono quelle forme di risposta che l’essere umano mette in pratica per ridurre lo stress e sono definite anche adattive. Specularmente, invece, sono strategie di non coping o di coping disadattivo tutte quelle che finiscono per aumentare lo stress. Così definito, il coping è strettamente connesso con un altro tema caro alla psicologia, cioè quello della resilienza, intesa sommariamente come capacità di adattamento e reazione ad eventi negativi. Una persona in grado di affrontare positivamente i problemi esterni si dimostra infatti resiliente. L’elemento caratterizzate la teoria del coping è la centralità che vi assume l’essere umano, che passa da soggetti passivo a soggetto attivo. In questa prospettiva, infatti, lo stress non è più il meccanico risultato di fattori esterni che l’individuo può solo subire ma è una condizione che lui può modificare mediante specifiche azioni e reazioni.
Le differenti strategie di coping
Ovviamente, le strategie di coping differiscono da persona a persona, perché sono fortemente connesse con il carattere, con l’ambiente in cui si è cresciuti e si vive, con le relazioni che si sono maturate nel tempo e in generale con una lunga serie di fattori individuali. Ad esempio, molto rilevante nel reagire allo stress è la differenza tra uomo e donna, così come quella legata all’età. Ognuno deve scoprire le proprie strategie di coping e non è detto che ciò che funziona per alcuni vada bene anche per altri.
In psicologia, però, si è provato a raggruppare in categorie le diverse abilità di coping, creando la seguente classificazione:
- Strategie di coping basate sul problema, che puntano a ricercare la fonte del disagio e a intervenire per rimuoverla;
- Strategie di coping basate sull’emozione: che mirano a gestire le emozioni negative che scaturiscono da un evento stressante;
- Strategie di coping basate sull’occupazione: che tendono a contrastare la negatività impegnando di attività concrete.
Un’altra possibile distinzione è quella tra:
- coping reattivo: il più comune, proprio di tutte quelle abilità che portano a reagire a uno stimolo esterno;
- coping proattivo: con cui si prova ad anticipare, per evitarlo, il generarsi di una condizione stressante.
I servizi dell’Hospice San Luca di Roma: residenziale e domiciliare
Caregiver day 2023, le giornate dedicate a chi si prende cura degli altri
La figura del caregiver, cioè di colui che si prende cura di un parente malato e non autosufficiente, è centrale e indispensabile in molte famiglie. Spesso, però, il lavoro del caregiver è poco visibile e poco riconosciuto, così come sono poco considerati i rischi di stress e di burnout a cui va incontro che è assorbito per molte ore da pesanti attività di assistenza morale e materiale. Il Caregiver Day ha proprio l’obiettivo di sensibilizzare le autorità e l’opinione pubblica su queste delicate tematiche. L’edizione 2023 prevede un calendario di quattro appuntamenti, tra aprile e maggio.
A qualcuno, il termine caregiver familiare dice poco. In realtà, questa figura è molto più diffusa della sua definizione ufficiale. Caregiver familiare, infatti, è colui che si prende cura di un parente o di una persona cara malata e non autosufficiente. Nell’esperienza di ciascuno, probabilmente sono tante le conoscenze che rientrano in questa cornice: figli e figlie che accudiscono genitori ormai anziani, mamme e papà che dedicano tempo ed energie a figli affetti da patologie gravi, nipoti che si fanno carico di nonni non più in grado di badare a sé stessi. E l’elenco potrebbe continuare. Solo in Italia, infatti, si stima che ci siano oltre 3 milioni di caregiver familiari, a cui si aggiungono tutti coloro che della cura altrui hanno fatto un mestiere (caregiver professionali).
Le giornate dei caregiver familiari
I caregiver, quindi, svolgono un ruolo fondamentale e insostituibile. Una centralità che però spesso non si accompagna ad una considerazione altrettanto forte. I caregiver familiari, infatti, in molte circostanze sono “invisibili”, dati quasi per scontati. È così che le loro fatiche e i loro problemi finiscono per essere sottovalutati, sia dal settore pubblico, che non li affianca con il necessario sostegno, sia dalle persone che li circondano, che non ascoltano eventuali richieste di aiuto (come il diffuso e pericoloso stress del caregiver). Per questa ragione, appare urgente fare un lavoro di sensibilizzazione delle autorità e dell’opinione pubblica affinché si dia il giusto riconoscimento a queste figure cardine della società. Ed è proprio con questo intento che è nata e si è sviluppata l’iniziativa dei Caregiver Day, giorni interamente dedicati alla riflessione e alla divulgazione sui temi connessi con la figura del caregiver.
Malati terminali, meglio a casa o in hospice?
Caregiver day 2023, tutti gli appuntamenti
L’edizione 2023 del Caregiver Day si svolgerà a partire dal 21 aprile e si articolerà in cinque incontri, che possono essere eseguiti sia in presenza che online:
- 21 aprile | Sostenere la resilienza del caregiver attraverso la narrazione - dalle 15,30 alle 17,30 presso Centro Sociale Bruno Losi, Via Medaglie d’Oro 2 - 41012 Carpi (MO) (e In diretta streaming)
- 5 maggio | Rafforzare la capacità di accompagnare verso il fine vita – dalle 15,30 alle 17,30 online su piattaforma Zoom
- 12 maggio | Malattia ed etica della cura: responsabilità individuali, legami famigliari, ruolo della comunità e formazione sociale alla cura - dalle 15,30 alle 17,30 online su piattaforma Zoom
- 19 maggio | Essere accompagnati e ascoltati nel passaggio dal domicilio alla cura in residenza assistita - dalle 15,30 alle 17,30 online su piattaforma Zoom
- 27 maggio | Co-progettare le risposte ai bisogni: world cafè - dalle 15,30 alle 17,30 presso Casa del volontariato, Viale B. Peruzzi 22, Carpi (MO)
Scarica il programma dettagliato
Assistenza malati terminali: meglio a casa o in hospice?
Per un malato terminale, è meglio l’assistenza a domicilio o il ricovero? Gli hospice offrono in entrambe i casi gli stessi standard di cure? Nella scelta è bene coinvolgere medici e paziente? Un breve approfondimento per dare supporto a chi si trova di fronte alla difficile scelta tra cure a casa o in struttura.
Quando si ha in famiglia un malato terminale, la scelta tra l’assistenza domiciliare o il ricovero in hospice è una delle più complesse da affrontare. L’obiettivo, infatti, è garantire le cure migliori ad una persona che attraversa una fase molto difficile della vita e, allo stesso tempo, non allontanarlo troppo dai propri affetti e dalle proprie abitudini. Quando si deve decidere tra cure a casa e ricovero, quindi, si è spesso assaliti da dubbi assolutamente leciti, che hanno soprattutto a che fare con i bisogni e le sofferenze di un malato terminale. Una scelta difficile, che però può essere più facilmente affrontata se si dispone delle giuste informazioni.
Assistenza domiciliare o ricovero: i servizi offerti dagli hospice
La prima cosa da sapere è che il termine hospice identifica tutte quelle strutture che erogano esclusivamente e specificatamente cure destinate a pazienti con prognosi infausta che si trovino nella fase finale della propria vita. Sono quindi dei veri punti di riferimento per tutti coloro che ricoprono il ruolo di caregiver di malati terminali. I servizi che offrono gli hospice sono di due tipi:
- Ricovero in sede;
- Assistenza domiciliare.
In entrambe i casi, se si sceglie una struttura di qualità, si ha la certezza di affidare il proprio familiare a una squadra di medici e professionisti sanitari capaci di farsi carico di tutte le sue necessità e fornirgli le cure migliori (comprese quelle palliative e di terapia del dolore). E questa certezza rappresenta già un grande sollievo. Quindi, fare visita ad un hospice, capire come si lavora al suo interno, informarsi sulle cure garantite, sono passi fondamentali per supportare la propria scelta.
Cure a casa o in hospice: il parere del paziente e dei medici
L’altra cosa che bisogna fare per decidere se è meglio il ricovero o la cura a casa, è ascoltare il parere dei medici e, se la malattia lo consente, del paziente direttamente interessato. Il medico di riferimento, infatti, è l’unico a poter valutare pienamente se il malato terminale può ricevere un adeguato livello di cure rimanendo a casa o deve essere tenuto in struttura. Allo stesso modo, è bene ascoltare le preferenze di chi sta male. Alcuni, infatti, preferisco vivere le ultime fasi della loro vita ella casa in cui hanno sempre abitato, circondati dagli affetti più cari. Altri, invece, si sentono più sicuri e confortati in una struttura sanitaria.
Come funziona l’assistenza domiciliare?
Accanimento terapeutico, quando le cure diventano una sofferenza
L’accanimento terapeutico è un tema delicato, strettamente intrecciato a quello delle cure palliative, della terapia del dolore e dell’eutanasia. In questo approfondimento, si analizza la definizione di accanimento terapeutico e la normativa che lo disciplina in Italia, a partire dalla Costituzione e dalla legge 219/2017.
Quando si parla di malattie a prognosi infausta, di cure palliative e di terapia del dolore, c’è un tema molto delicato che viene in rilievo e che merita di essere affrontato: l’accanimento terapeutico. Nel linguaggio comune e nel dibattito mediatico, questo argomento è legato a doppio filo con quello dell’eutanasia e del testamento biologico. Spesso, però, si tende a fare confusione, senza saper bene dove collocare la distinzione tra rifiuto delle cure e suicidio assistito. Consapevole di questa difficoltà e sollecitata dall’opinione pubblica, la normativa italiana ha provato a disciplinare l’argomento con la legge 219 del 2017. In ambito medico, però, non sempre è facile tracciare un contorno netto del fenomeno.
Cos’è l’accanimento terapeutico: definizione ed esempi
La domanda principale, quindi, resta una: cosa si intende con accanimento terapeutico? La definizione di riferimento va sicuramente cercata nella già citata legge 219, che, pur senza utilizzare mai espressamente il termine accanimento terapeutico, elabora il seguente sintetico significato:
“trattamenti inutili o sproporzionati”.
Questa definizione, però, acquista ancora più significato grazie al riferimento che la norma fa ai malati con “prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte” che vadano incontro a “sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari”. Semplificando, quindi, è possibile affermare che nel concetto di accanimento terapeutico rientrano tutti quei trattamenti che non sono in grado né di dare beneficio alla salute, né di migliorare la vita del paziente. La valutazione, alla luce del quadro clinico, spetta ovviamente all’equipe medica che ha in carico il paziente.
D’altra parte, il riferimento al miglioramento della qualità della vita dell’assistito come discrimine per stabilir quali terapie applicare e quali no è contemplato anche dal codice deontologico dei medici, all’articolo 16:
“Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”.
È evidente, quindi, che le cure palliative non rientrano nell’ipotesi di accanimento terapeutico ma, anzi, in molto casi, sono l’unico modo per alleviare le sofferenze di un paziente quando si decide di interrompere gli altri trattamenti perché inutili.
Esempi di accanimento terapeutico, invece, a seconda del contesto medico, possono essere alcuni trattamenti oncologico, come la chemioterapia, se protratti in modo indiscriminato e ostinato, anche contro le evidenze.
Accanimento terapeutico ed eutanasia
Questi riferimenti normativi, inoltre, rendono abbastanza chiara anche la differenza che c’è tra accanimento terapeutico e eutanasia. In quest’ultima ipotesi, conosciuta anche come suicidio assistito e non permessa in Italia, non solo si interrompono le cure non più efficaci ma si accelera il naturale decesso del paziente mediante la volontaria e consapevole somministrazione di appositi farmaci. Ovviamente, nei paesi in cui questa pratica è legale, può essere attuata solo su esplicita richiesta del malato, espressa al momento o attraverso apposite disposizioni di ultima volontà.
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L’accanimento terapeutico nella normativa italiana: Costituzione e legge 219
Al di là della definizione, è utile approfondire un po’ di più cosa dice la normativa italiana in materia di accanimento terapeutico. La legge di riferimento, come anticipato è la 219 del 2017. A monte, però, è bene richiamare anche l’articolo 32 della Costituzione, che vieta l’imposizione di qualsiasi trattamento sanitario, salvo casi eccezionali disciplinati per legge e comunque rispettosi della persona umana.
Agganciandosi a questo importante principio, nel 2017 si è cercato di disciplinare meglio tutto ciò che riguarda il consenso del malato alle cure. La legge di 219/2017 si basa su alcuni concetti fondamentali che ne costituiscono i pilastri:
- Divieto di ostinazioni irragionevoli nelle cure, in carico al medico curante e alla sua equipe;
- Consenso informato, che il paziente in grado di intendere e volere deve poter esprimere rispetto alle cure che gli vengono somministrate;
- Pianificazione condivisa delle cure, che viene redatta con il coinvolgimento del paziente e dei suoi parenti, nei casi di patologie che provocano invalidità, progressivo deterioramento e prognosi infausta;
- Disposizioni anticipate di trattamento (o testamento biologico), che permette al paziente di prendere decisioni relative ai trattamenti terapeutici che intende ricevere nella fase terminale della propria vita, qualora non fosse in grado di comunicarli direttamente al momento al personale sanitario per mancanza di coscienza.
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